Lasciata la tomba di Ottone e Giovanni Visconti, vescovi di Milano, proseguiamo lungo la navata laterale destra fino al transetto. Proprio dietro l'angolo troviamo il mausoleo funebre di Gian Giacomo de Medici, detto il Medeghino.
Lo prendiamo ad esempio per raccontare di una figura molto in voga nei tempi dei Visconti e degli Sforza: quella dei capitani di ventura.
La prima cosa che stupisce è che un personaggio come quello del Medeghino possa aver avuto l'onore di essere tumulato e ricordato con tanta magnificenza in un luogo sacro come il Duomo. Certo, ripercorrendo la sua biografia, non si trova esattamente una persona in odore di santità.
Proveniente da una famiglia milanese non di primo piano, si fa notare sin da giovane per essere una sorta di teppista. A 16 anni viene addirittura bandito da Milano. In una guerra tra bande, era stato preso a bastonate dai compagni di un tale Paolo Pagnano. Per vendetta, uccide quest'ultimo in pieno giorno.
Da bandito, si rifugia sul lago di Como dove mette insieme una banda di disgraziati e vive di pirateria.
Siamo nel 1513-14, quindi nel pieno delle guerre che hanno come oggetto del contendere il ducato di Milano. Nel nostro itinerario storico, quindi, il mausoleo del Medeghino simboleggia la conclusione della parabola visconteo-sforzesca inaugurata dal Vescovo Ottone Visconti nel 1262.
In un tempo di guerre e battaglie le "doti" di Gian Giacomo risultano molto utili. Viene quindi avvicinato da Giovanni Morone, cancelliere di Massimiliano Sforza duca di Milano deposto dai francesi nel 1515 dopo la vittoria di Marignano. E' qui che da brigante Gian Giacomo si trasforma in Capitano di ventura assumendo un ruolo politico-militare.
Combatte contro i francesi e quando nel 1522 i francesi vengono scacciati da Milano e Carlo V rimette a capo del ducato di nuovo uno Sforza, Francesco II, il Medeghino rientra a Milano in pompa magna come guardia del corpo del Giovanni Morone, nominato governatore. La qualifica di guardia del corpo prevede anche qualche attività "extra" come sicario. Ad un certo punto, però, il malcontento per i modi e per il ruolo del Medeghino nella politica milanese diventano insostenibili ed il Duca ordina al Morone di liberarsene.
La leggenda vuole che il Morone abbia cercato di giocare d'astuzia. Tentando la carta del "promoveatur ut removeatur", dice al Medeghino che lo avrebbe investito del castello di Musso sul lago di Como. Così gli consegna il diploma di investitura, insieme ad una busta sigillata, da mostrare al castellano di Musso per prendere possesso del proprio feudo. Nella busta sigillata, in realtà, ci sarebbe stato scritto l'ordine di eliminare il Medeghino. Quest'ultimo, però, fiuta la trappola e, su consiglio del fratello Giovan Angelo, apre la busta senza rompere il sigillo. Avuta conferma dei suoi sospetti, gioca a sua volta d'astuzia e sostituisce l'ordine di ucciderlo con l'ordine di aprire le porte del castello e consegnarlo al nuovo venuto.
Così accade e il castello di Musso, rocca inespugnabile, diventa la base di partenza di una masnada di briganti che spadroneggeranno su tutto il lago di Como, sui paesi e sulle valli che vi si affacciano, facendo razzie, imponendo tasse e pedaggi, compiendo rapine e sequestri. Musso divenne così una sorta di città-stato, con persino una propria zecca.
La potenza del Medeghino si espande, conquistando altri castelli, come ad esempio quello di Monguzzo, nell'alta Brianza.
Nella situazione politica particolarmente turbolenta dell'epoca, può giocare in maniera spregiudicata. Spunterà, ad esempio, un accordo con gli spagnoli di Carlo V quando Francesco II Sforza tenta di allontanarsene. Con l'accordo, Gian Giacomo viene investito del titolo di Marchese di Musso, di conte di Lecco (a dire il vero, in questo caso si autoproclama) e signore di Monguzzo, che diventa il capoluogo della sua area di influenza.
Nel 1529 il vento cambia. Carlo V e Francesco Sforza trovano un accordo che prevede la piena sovranità di quest'ultimo sul territorio del ducato. Gian Giacomo torna ad essere un "bandito" che occupa abusivamente territori che non gli appartengono. Perde Monguzzo e si ritira a Musso dove tenta la resistenza. Alla fine si giunge ad un compromesso: lascia il lago di Como in cambio di 35'000 scudi d'oro ed il Marchesato di Marignano che era valutato capace di rendere 1'000 scudi annui.
Il temperamento esplosivo non gli permetteva di ritirarsi a fare il "signorotto di campagna". Continua quindi la sua carriera di capitano di ventura al servizio dell'imperatore, combattendo in Ungheria, in Germania, in Boemia, in Francia. Questo suo contributo viene premiato anche con la nomina a Vicerè di Boemia.
Sul fronte della vita privata, sposa nel 1545 una nobildonna, Marzia Orsini, che morirà pochi anni dopo senza dargli eredi.
Gian Giacomo morirà nel 1555, forse per avvelenamento.
Ma torniamo alla domanda iniziale: come mai un personaggio di questa pasta, intelligente sì, ma che mise la propria intelligenza non certo al serzizio della carità cristiana, può godere di un cotale mausoleo all'interno della cattedrale milanese?
Questioni di famiglia...
Il fratello Giovan Angelo, quello che lo consigliò sulla questione della lettera, nel 1559 fu eletto addirittura Papa con il nome di Pio IV! E fu proprio lui a commissionare nel 1564 a Leone Leoni, detto l'aretino questo mausoleo in ricordo del fratello maggiore, a cui probabilmente dovette la potenza necessaria a uscire vincitore dal conclave.
Ma non finisce qui: il nipote di Gian Giacomo e Giovan Angelo, figlio della sorella Margherita, sarà uno dei personaggi più importanti della chiesa ambrosiana e non solo. Sarà anche lui cardinale, anche se non diventerà papa. Verrà però proclamato Santo. Stiamo parlando di San Carlo Borromeo.
mercoledì 4 gennaio 2012
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